venerdì, maggio 31, 2013

Il libro di Zanna - Secondo Capitolo

Alcune settimane prima di quella notte alle ore 23.45 di una piovosa giornata primaverile.
La pioggia cadeva incessante ormai da parecchie ore e il cielo, coperto da una spessa coltre di nubi scure, veniva solcato da lampi al ritmo incessante dei tuoni. Jarod era seduto alla sua scrivania accanto alla finestra che dava su di un incolto giardino dominato dal buoi della notte, la luce della stanza era fioca e sostenuta soltanto da una piccola abasciur. Quelle condizioni di scarsa luce contrapposta al nero della notte, che poteva ammirare dalla finestra, gli davano una strana sensazione di sicurezza.
L’inchiostro si depositava cauto e tremolante tra le celle del modulo blu dominato da una mano incerta. Ho sempre detestato compilare quei documenti in cui i dati dovevano essere scritti nelle singole celle sequenziali, mi dava un senso di segregazione, di costringimento che non mi appartengono. Mi sento libero in genere ma quella sera quelle cellette mi lasciavano indifferente, ero più preoccupato dalla scelta che stavo facendo. In fondo, mi sono detto un sacco di volte, “cosa mi serviranno mai, finiranno per marcire li freschi e pronti per essere riutilizzati …forse”.
Nome, Cognome, Stato civile, Malattie, Dipendenze da droghe, Patologie si susseguivano in una dichiarazione spietata che non lasciava dubbi sulla scelta intrapresa. Alla fine la fatidica domanda, quella a cui molti rispondo NO e chi osa sbarrare il contrario di solito lo fanno affrontando una strada ignota scarsamente illuminata che sa di sacralità e scienza.
Quando da piccolo mi dicevano di stare attento alla compagnie con cui uscivo, che avrei potuto facilmente sbagliare strada e finire male, non capivo. Non capivo la metafora della strada in quanto vita. Per me una scelta era ed è una scelta, non ci sono scelte giuste o sbagliate ma solo risultati buoni o meno buoni. Da tutto si può trarre qualcosa di utile, anche dai risultati definibili “disastrosi”. Bhe all’età di ventinove anni ho capito che siamo solo dei passeggieri in una grandissima metropoli chiamata vita. L’ho capito per caso ascoltando durante uno dei miei tanti viaggi mentali una canzone di Iggy Pop del 1977 “The Passenger”. Ci vuole poco per perdersi in una città, specialmente se siamo troppo sicuri di noi stessi.
L'ultima decisione va presa comodamente pensai, così mi sdraiai sul divano nella penombra di quel posto che mi faceva stare bene quando tutto attorno a me crollava miseramente, quel posto che mi scaldava quando fuori faceva freddo, mi proteggeva quando le intemperie si abbattevano sulla città, quel posto che sentivo mio ovvero la mia casa. Quella sera decisi di svoltare di colpo e prendere la strada della donazione degli organi …”SI! ACCONSENTO L’ESPIANTO E LA DONAZIONE DEI MIEI ORGANI QUAL’ORA SIA ACCERTATA LA MORTE CEREBRALE”

Ore 21.45 alcune settimane dopo la firma del modulo.
Ero fermo davanti a quell'immensa porta blu antincendio da ormai 5 minuti buoni, immobile, a fissarla con la maniglia tra le mani nascondendomi dall'unico punto luce che possedeva per sfuggire allo sguardo dei miei colleghi. Quella sera era più dura del solito aprire quel mondo fatto di confusione, disorganizzazione e rapporti sociali mal sani. Quella sera era stato difficile persino varcare la porta d'ingresso, sentivo il peso del dolore che quel posto racchiudeva, della sofferenza delle persone ricoverate.
Jarod era da sempre un ragazzo molto sensibile, cercava di nasconderlo dietro ad un velo di ironia e svogliatezza, ma in realtà era incapace di esprimere i propri sentimenti e le proprie paure. Paure che da parecchi anni lo tormentavano e che a volte lo tenevano sveglio tutta la notte. Quella sera il suo stato d'animo era turbato da un lutto di un suo amico, un lutto inaspettato che ti colpisce come un fulmine a ciel sereno. La sua fede religiosa vacillava di diverso tempo sotto i colpi oscuri della vita, banalità per alcuni ma veri e propri rompicapo per una mente così desiderosi di risposte come quella di Jarod.
Quella porta rappresentava per lui una sorta di frontiera tra due mondi, quello fatto di pensieri tormentati riguardo ad un possibile lutto in famiglia, con tutte le conseguenze di un padre troppo attaccato al lavoro e unico custode di quell'impero che gli sarebbe inevitabilmente franato contro e il mondo di un lavoro che non lo rendeva soddisfatto e che a stento riusciva sopportare.
Una luce intensa e accecante si fece avanti d'improvviso nella penombra distogliendo Jarod dai suoi pensieri, a seguirla un forte boato e un rumore di passi frettolosi e ben marcati. La pioggia iniziò a sbattere contro i vetri della finestra e il sibilo del vento penetrò all'interno dell'ospedale conferendogli un accento ancora più tetro. Mi spostai verso la finestrella della porta per sbirciare i mie colleghi, l'occhio venne attratto inevitabilmente dalle lancette dell'orologio che mi ricordarono che il mio turno era già iniziato da 10 minuti, decisi così di accantonare i miei pensieri per un po’, chiudere gli occhi, riempire i polmoni di quella putrida aria ospedaliera e spingere verso il basso la maniglia facendo scivolare la pesante porta verso di me.